Si, lo so che pubblico spesso canzoni del caro Tom, ma dico io, avete mai notato che incredibili mani ha?
Un uomo con mani del genere non poteva fare altro nella vita.
Mani d’autore, mani jazz, mani raffinatamente sbronze.
Come l’onda del gin
agitata nel buio sottovetro, secco il polso,
sbattuta contro la vita
al ritmo dei cori in catene,
della sete di libertà,
dei passi veloci in fuga.
Come l’onda del gin,
le labbra bagnate da musica e marea,
passioni e abissi
cantati dal cuore ai cuori,
echi potenti e suadenti
impastati di ricordi.
Sarebbe divertente definirci
noi che ad inquadrarci si rischia la follia,
come a misurarci un tanto a pensiero.
Chi troverebbe il coraggio di tirar le somme ai pazzi,
di seguirci ad occhi chiusi per chilometri di buio.
Sarebbe bello farci prendere in fuga,
concederci all’oblìo, abbandonarci poi
che siamo bravi a correre
e sopravvivere d’affanni,
basterebbe invece respirarci.
Siamo anche bravi a piangere,
addosso mai,
basterebbe guardarci per non smettere di ridere.
Saremmo condannati alla felicità,
all’inesorabile bisogno,
alla bramosia della condivisione,
al continuo scambio.
Sarebbe vita.
C’è un posto che ad andarci non si direbbe speciale.
E’ sperduto tra natura e periferia, tra la salsedine e le rimesse del porto, tra barche e baracche, vicino al mare ma dalla parte sbagliata.
E’ tenuto in vita dalla volontà di pochi e dimenticato da chi dovrebbe farne patrimonio culturale.
C’è un posto che ha visto la morte e che ora è un piccolo giardino commemorativo, protagonista occasionale dei pensieri di chi va a sedersi sulla panchina, o di sporadiche letture alla memoria di lui, di Pasolini, che lì fu assassinato.
Io mi ci sono seduta su quella panchina, una volta, ad ascoltare l’eco lontana eppur vicina di tante storie sbagliate.
Una nottata passata a correre senza memoria.
A correre nel buio di una strada illuminata solo da un lampione malfunzionante , a svoltare gli angoli con l’affanno di non sapere dove andare, con la sensazione di dover arrivare in un posto ben preciso.
Ah…a ricordare quale!Correre….fermarsi….urlare…correre….riprendere fiato…correre….
Poi lo vedi, nell’ombra, l’uomo col cappello che ti fa cenno di seguirlo…..e lo segui.
– Curioso quello che puoi vedere ad occhi chiusi, sulla scia di una canzone –
Non avrei tempo per pensare
se mi facessi bene, come l’Autunno.
Se di giallo e arancio mi cibassi il cuore,
se di rosso dipingessi le mie notti.
Non avrei cicatrici da lenire
se fossero le carezze tue tramontana,
brividi nell’alba polarizzata e gote gelate,
se ad ogni respiro
mi urlassi nei polmoni.
Non saluterei mai di spalle un tramonto
se portasse pace dopo la pioggia,
come d’ Autunno.
C’erano questi tizi venuti dal freddo.
Qui al caldo si fecero conoscere con una canzone del periodo e un video strepitoso, ben avanti al periodo.
Poi restarono sottovalutati, ma continuarono a sfornare bellissimi pezzi. Tipo questo.
(Ah…io Morten lo seguo su Facebook, continua ad essere un bell’uomo e un sensibile autore)
S’era detto di star bene
di non vivere nei pensieri, dunque
s’era detto di camminare insieme.
Tre metri o gruppi di cento
a non rincorrersi, a trovarsi,
s’era detto di aspettare,
occhi mai lucidi.
Dell’utilità dei sogni
s’era detto, utilità.
Alla futilità dei sogni aggrappati
ora, stai dicendo, futilità.
Alle tre del pomeriggio mi viene in mente questa.
Il fascino e l’intramontabilità dei classici, o la voglia di far passare un patologico dolore cervicale con un inconvulso movimento blues? Chissà.